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La gestione intelligente di una risorsa primaria: il riutilizzo dell’acqua meteorica

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L’abitudine a considerare l’acqua come una risorsa inesauribile, specialmente quella potabile che sgorga con semplicità dai rubinetti domestici, è un presupposto culturale che l’attuale contesto climatico ed economico sta rapidamente mettendo in discussione. Periodi di siccità sempre più frequenti, alternati a precipitazioni brevi ma di straordinaria intensità, evidenziano la fragilità dei nostri sistemi di approvvigionamento. In questo scenario, l’idea di impiegare acqua di altissima qualità, trattata e resa potabile attraverso processi dispendiosi, per usi che non lo richiederebbero affatto – come l’irrigazione del giardino o lo scarico dei servizi igienici – appare sempre più un controsenso gestionale. Diventa quindi logico esplorare strategie alternative. Tra queste, il recupero dell’acqua piovana si sta affermando non più come una bizzarria ecologista, ma come una scelta progettuale matura e vantaggiosa per l’abitazione contemporanea.

Perché l’acqua piovana è una risorsa strategica

I benefici che derivano dall’adozione di un sistema di raccolta dell’acqua meteorica sono molteplici e si diramano su diversi piani: economico, ambientale e persino qualitativo. Il vantaggio più diretto, quello che l’utente percepisce immediatamente, è la riduzione della spesa in bolletta. L’acqua piovana raccolta è una risorsa a costo zero che va a sostituire quella prelevata dall’acquedotto per una quota significativa dei consumi domestici non potabili.

Sul piano ambientale, i vantaggi sono altrettanto evidenti. Ridurre il prelievo dalla rete pubblica significa alleggerire la pressione sugli acquedotti e contribuire attivamente alla conservazione delle falde freatiche, che specialmente nei mesi estivi subiscono uno stress notevole. Allo stesso tempo, il processo di raccolta e accumulo dell’acqua svolge un’importante funzione di laminazione.

Infine, non va trascurato l’aspetto qualitativo. L’acqua piovana è un’acqua “dolce” per natura, priva del calcare presente in molte reti idriche. Questa sua caratteristica la rende ideale per gli elettrodomestici, come le lavatrici, che non subiscono incrostazioni.

L’anatomia di un impianto di recupero

È fondamentale distinguere tra un semplice bidone di raccolta da giardino e un sistema integrato e complesso per l’uso domestico. Sebbene entrambi utili, il secondo richiede una progettazione accurata. Un impianto completo si articola essenzialmente in quattro fasi: la captazione (raccolta), la filtrazione, l’accumulo (stoccaggio) e la distribuzione.

La fase di captazione avviene, nella quasi totalità dei casi, attraverso le superfici di copertura dell’edificio, ovvero il tetto. Le grondaie e i canali pluviali hanno il compito di intercettare e convogliare tutta l’acqua verso un punto di raccolta centralizzato. La natura della copertura ha la sua importanza: sono ideali materiali inerti come le tegole in laterizio o cemento. Sono invece da evitare, per ragioni diverse, coperture che possono rilasciare sostanze, come il rame, o, in edifici datati, superfici contenenti ancora amianto.

Prima di essere immagazzinata, l’acqua deve essere pulita. La filtrazione è un passaggio cruciale per garantire la qualità dell’acqua e la durata dell’intero sistema. Il primo livello è spesso un filtro grossolano, che blocca foglie e detriti più grandi all’ingresso dei pluviali. Nei sistemi più seri, è indispensabile un filtro di “prima pioggia”. Si tratta di un dispositivo che scarta automaticamente i primi litri d’acqua di ogni precipitazione. È un accorgimento fondamentale, poiché quest’acqua è la più sporca, quella che ha “lavato” il tetto e l’aria, caricandosi di polveri, inquinanti atmosferici e impurità.

Le soluzioni di accumulo e distribuzione

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Il cuore pulsante dell’impianto è il serbatoio di accumulo. La scelta della sua capacità e tipologia dipende da fattori precisi: lo spazio a disposizione, la piovosità media della zona e il volume di acqua che si intende riutilizzare. I serbatoi fuori terra, solitamente in polietilene e posizionati in giardino, rappresentano la soluzione più economica e di semplice installazione. Sono perfetti per l’irrigazione, ma presentano lo svantaggio di esporre l’acqua a sbalzi termici e alla luce solare, che può favorire la proliferazione di alghe.

Per un uso domestico integrato e costante, la scelta ricade quasi esclusivamente sui serbatoi interrati. L’installazione è ovviamente più invasiva e costosa, richiedendo uno scavo, ma i vantaggi nel lungo termine sono decisivi: non occupano spazio vivibile, mantengono l’acqua a una temperatura fresca e costante e, soprattutto, la proteggono totalmente dalla luce, preservandone la qualità nel tempo.

Dall’accumulo si passa alla distribuzione. Per prelevare l’acqua in giardino, può bastare un semplice rubinetto posto alla base del serbatoio. Per alimentare gli usi interni dell’abitazione, invece, è indispensabile un sistema di pressurizzazione. Si utilizza una pompa (spesso sommersa, collocata direttamente all’interno del serbatoio) abbinata a un sistema di controllo (autoclave) che mantiene l’impianto dedicato in pressione e attiva la pompa solo nel momento in cui si apre un rubinetto collegato a quella rete.

Gli utilizzi pratici: cosa si può fare (e cosa no)

Bisogna essere molto chiari su un punto: l’acqua piovana raccolta, anche se filtrata in modo ottimale, non è potabile. Non ha subito i controlli e i trattamenti di disinfezione (come la clorazione) previsti per l’acqua di acquedotto. Gli usi esterni sono i più immediati e sicuri: l’irrigazione di orti e giardini, il lavaggio dell’automobile, la pulizia di cortili, attrezzi o pannelli solari.

L’utilizzo interno, invece, richiede un presupposto tecnico non banale: la predisposizione di una rete idrica duale all’interno dell’edificio. Devono cioè coesistere due impianti di tubazioni separati e mai comunicanti: uno per l’acqua potabile (destinata a cucina, lavabi, docce) e uno per l’acqua recuperata. Quest’ultima rete andrà ad alimentare gli scarichi dei WC (che da soli rappresentano una quota enorme dei consumi idrici) e, previo un ulteriore filtraggio fine, la lavatrice.

La potabilità: un obiettivo possibile ma complesso

È tecnicamente possibile spingersi oltre e rendere potabile l’acqua piovana? La risposta è affermativa, ma richiede un sistema di trattamento che va ben oltre la semplice filtrazione. Per garantire l’eliminazione di batteri, virus ed eventuali inquinanti chimici disciolti, è necessario installare una filiera di trattamento specifica. Questa include solitamente una microfiltrazione spinta, un passaggio attraverso filtri a carboni attivi (per rimuovere odori e composti organici) e, come passaggio finale imprescindibile, un sistema di sterilizzazione, quasi sempre tramite lampade a raggi UV. Si tratta di un investimento economico e di gestione non indifferente, che richiede una manutenzione rigorosa e costante, spesso non giustificato in contesti dove è comunque presente un allaccio alla rete pubblica.

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